Category: poesia
Premio Lorenzo Montano 2020 – Francesco Bellomi
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nelle mani raduni la morte del prato
a D.B.
sequenza in tre oscurità
Valdinferno, 25 luglio 2013
Questa terra, su cui non lascio
impronta ma uno stralcio azzurro,
mentre salgo in preda al sole
dei morti, in un requiem di cicale
e api, questo suolo imperforabile
fa eco al nulla, su cui calpesto
tane delle bestie a cuore fermo
mentre passo, acquattate alle radici
grasse delle piante e nell’oblio
dell’erba pesta sparse nel colore
giallo delle campagne, aguzzando
udito e pelo, questa landa desolata,
dai cui ruderi isolati, simulacri
di sonno, si affaccia un volto solo
ad ogni ora e su tutti soffia identico
quel nome incomprensibile,
lascia all’anima deporre il peso
in una nicchia assolata.
[su una pagina, di getto, seduto in una pietraia]
Appunto da un prato sotto il sole (e altrove)
Queste registrazioni, eseguite alcuni giorni fa in un luogo qualsiasi dell’Appennino, documentano il testo numero nove di una raccolta a cui lavoro dal 2005, della quale ho fatto uscire alcuni estratti su Ulisse, Nazione Indiana e in un’antologia delle Voci della Luna nel corso di questi anni.
Nella prima, la voce è la mia, in un prato sotto il sole. Il suo valore è, mi pare, soprattutto letterale.
Nella seconda, le voci sono di due amiche, che si son prestate al gioco dell’imitazione, e mi pare si colga meglio in quelle il senso di una sete d’assoluto forse mai veramente espressa a parole.
estate, solo, in un prato fiorito
estate, stesso giorno, Eugenia e Iole al fresco della Madonna della neve
prosa in prosa
San Felice sul Panaro, 20 maggio 2012
Nei giorni del terremoto in Emilia, dalle macerie di parole che sempre cerco di ricondurre a un senso, si aprì d’un tratto questo canto. Eppure non avevo alcun contatto diretto nelle zone colpite, nessun amico o amica mai di quelle parti. Un’infinita pena mi infliggevano gli stralci dei giornali e i volti in primo piano nelle foto e tutti quei frammenti scomposti nel dolore.
Questi versi sono la forma che non si può abitare perché perennemente in bilico, la nostalgia di casa e la paura rimaste nelle crepe al muro.
Avrei voluto fare qualcosa di più che scrivere, ma ancora non ci son riuscito.
senti? polvere che adorna la rovina della terra
si solleva a scatti, a sciami afferra le caviglie,
alle radici stringe la sua frusta e tira, strappa
i vetri e vortica tra i buchi, si divarica in fessure,
sale sradicando arbusti e vene nella roccia,
artigliando travature in bilico sul vuoto
nei cantieri, scortica grovigli elettrici
di cavi, scaraventa recidiva nugoli
di pietre e fumo, toglie il peso ai vivi
dopo la vertigine la veglia, le vigilie
mute d’altri tuoni senza lampi, notte
e giorno stesi nei rigurgiti, nei gorghi,
le gengive nere per la terra, gonfie
di poltiglia densa e getti d’acqua
ininterrotti – l’emorragia continua
cancellate, crepe e cumuli di pietre
circondano a settori il vuoto:
qui un altare senza ceri o croci,
lì un giardino sconsacrato senza fiori
i fischi, i pianti, i gridi e le sirene
ricadono più inerti di macerie,
è solo un alveare di arnie vuote
la città, in cui non c’è più casa,
o cosa intatta, o verbo a ricucire
il labbro alla ferita e metterli tacere
semi secchi senza odori, rotti, ossi,
tonfi sordi, rotolati nei rigagnoli dei fiumi,
rimangono sospesi in acqua che non scorre
e trema con la terra e col sudore sulla fronte
nello spasmo che contrae le viscere vacilla
ancora la città sui resti, l’acqua erompe
densa dagli scantinati, spinge i suoi rifiuti
morti fuori, i gusci e le immondizie, i mezzi
vivi ad occhi chiusi in agonia da parto
sino a che c’è forza da sfogare, il ventre
inciso, smarginato, prosciuga le sue piaghe,
non si cuce addosso la voragine che sputa,
ingoia e sputa coi detriti il sangue
la polvere s’affina nella luce alle fessure,
la pioggia ferma cenere che soffia il fuoco
spento e fa cadere a peso il fumo; scure
spire di fuliggine tempestano i gironi
terrestri, neve nera di altri giorni porta il buio