Valdinferno, 25 luglio 2013

Questa terra, su cui non lascio
impronta ma uno stralcio azzurro,
mentre salgo in preda al sole
dei morti, in un requiem di cicale
e api, questo suolo imperforabile
fa eco al nulla, su cui calpesto
tane delle bestie a cuore fermo
mentre passo, acquattate alle radici
grasse delle piante e nell’oblio
dell’erba pesta sparse nel colore
giallo delle campagne, aguzzando
udito e pelo, questa landa desolata,
dai cui ruderi isolati, simulacri
di sonno, si affaccia un volto solo
ad ogni ora e su tutti soffia identico
quel nome incomprensibile,
lascia all’anima deporre il peso
in una nicchia assolata.

[su una pagina, di getto, seduto in una pietraia]

Appunto da un prato sotto il sole (e altrove)

Queste registrazioni, eseguite alcuni giorni fa in un luogo qualsiasi dell’Appennino, documentano il testo numero nove di una raccolta a cui lavoro dal 2005, della quale ho fatto uscire alcuni estratti su Ulisse, Nazione Indiana e in un’antologia delle Voci della Luna nel corso di questi anni.
Nella prima, la voce è la mia, in un prato sotto il sole. Il suo valore è, mi pare, soprattutto letterale. 
Nella seconda, le voci sono di due amiche, che si son prestate al gioco dell’imitazione, e mi pare si colga meglio in quelle il senso di una sete d’assoluto forse mai veramente espressa a parole.

estate, solo, in un prato fiorito

estate, stesso giorno, Eugenia e Iole al fresco della Madonna della neve

San Felice sul Panaro, 20 maggio 2012

Nei giorni del terremoto in Emilia, dalle macerie di parole che sempre cerco di ricondurre a un senso, si aprì d’un tratto questo canto. Eppure non avevo alcun contatto diretto nelle zone colpite, nessun amico o amica mai di quelle parti. Un’infinita pena mi infliggevano gli stralci dei giornali e i volti in primo piano nelle foto e tutti quei frammenti scomposti nel dolore.
Questi versi sono la forma che non si può abitare perché perennemente in bilico, la nostalgia di casa e la paura rimaste nelle crepe al muro.
Avrei voluto fare qualcosa di più che scrivere, ma ancora non ci son riuscito.

 

senti? polvere che adorna la rovina della terra
si solleva a scatti, a sciami afferra le caviglie,
alle radici stringe la sua frusta e tira, strappa
i vetri e vortica tra i buchi, si divarica in fessure,
sale sradicando arbusti e vene nella roccia,
artigliando travature in bilico sul vuoto
nei cantieri, scortica grovigli elettrici
di cavi, scaraventa recidiva nugoli
di pietre e fumo, toglie il peso ai vivi

dopo la vertigine la veglia, le vigilie
mute d’altri tuoni senza lampi, notte
e giorno stesi nei rigurgiti, nei gorghi,
le gengive nere per la terra, gonfie
di poltiglia densa e getti d’acqua
ininterrotti – l’emorragia continua

cancellate, crepe e cumuli di pietre
circondano a settori il vuoto:
qui un altare senza ceri o croci,
lì un giardino sconsacrato senza fiori

i fischi, i pianti, i gridi e le sirene
ricadono più inerti di macerie,
è solo un alveare di arnie vuote
la città, in cui non c’è più casa,
o cosa intatta, o verbo a ricucire
il labbro alla ferita e metterli tacere

semi secchi senza odori, rotti, ossi,
tonfi sordi, rotolati nei rigagnoli dei fiumi,
rimangono sospesi in acqua che non scorre
e trema con la terra e col sudore sulla fronte

nello spasmo che contrae le viscere vacilla
ancora la città sui resti, l’acqua erompe
densa dagli scantinati, spinge i suoi rifiuti
morti fuori, i gusci e le immondizie, i mezzi
vivi ad occhi chiusi in agonia da parto

sino a che c’è forza da sfogare, il ventre
inciso, smarginato, prosciuga le sue piaghe,
non si cuce addosso la voragine che sputa,
ingoia e sputa coi detriti il sangue

la polvere s’affina nella luce alle fessure,
la pioggia ferma cenere che soffia il fuoco
spento e fa cadere a peso il fumo; scure
spire di fuliggine tempestano i gironi
terrestri, neve nera di altri giorni porta il buio