Forte Tortagna, 13 luglio 2011

cara *,
ci si apposta da questo lato della pagina, nel mondo, ben coperti dal silenzio, grammaticati sino ai denti, creature buffe ma ortodosse, esperte nello scarto sintattico, addestrate a far scattare il grilletto della rima e fare centro, o allitterare in terra la parola: parola che colpisce cosa (e la riporta al mondo), o cosa che sfugge a parola (e rimane nella forma chiusa).
Da un momento all’altro qualsiasi cosa può apparire, farsi avanti sul fondale bianco, muovere da dietro e chiederci il suo nome. Dobbiamo stare all’erta, è il tirocinio dell’attesa. Il non nominato ancora preme appena sulle cose all’altro lato, le sposta dal loro nome, dal carico di senso che le riempie, fa vibrare le geometrie del paesaggio.
Col passar degli anni si impara a trattenere il colpo sino all’ultimo, a fare centro anche senza mirare, una cosa sola il corpo e l’arma, come al gesto naturale su un oggetto una mano lo afferra senza scarto. Poi si scrive meno, si smette di scaricare contro il vuoto un abissale peso d’io, di crivellare ovunque ad alzo zero sperando di segnare a caso un punto e atterrar la preda. Tra continui falsi allarmi e quotidiani avvistamenti, la pressione è forte e toglie il sonno.
Da bambini appoggiavamo i visi su una pietra dopo un giorno di sole, come su un guanciale caldo, ascoltando il sangue sulle tempie accelerare, batter forte, elencare nella carne i princìpi del mondo. Giungerà così un giorno a noi anche la morte, un lampo o un’ombra sull’acqua diventata all’improvviso scura. Ci sentiremo allora perfetti, trattenendo in una volta sola tutte le parole.
Un abbraccio
F.

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