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Sui Quattro Quarti
di Antonio Diavoli
Quale realtà si pone nel simbolo? Quale realtà si pone altrove nel simbolo? I Quattro Quarti – QQ – ci accolgono non attesi, come ospiti la cui presenza non è necessaria: la soglia in cirillico non arreca traduzione: l’ospite, il noi, è ineluttabile, ma il percorso si pone come simbolo, come il calco di un corsivo su di una parola di cui non abbiamo conoscenza. E ciò che qui il simbolo ripone è un segno, un avanzamento lungo una strada già attraversata: un percorrere dopo ciò che prima è scritto.
«poso il mio pensiero/ come gli occhi un cieco// (restando altrove)», qui il poeta dichiara il suo Tutto, pone qualcosa (il pensiero) di cui non può servirsi e di cui è inutile servirsi come un cieco i propri occhi. Una raccolta in una poesia, ma il verso finale (restando altrove) invita a varcare la soglia, nel coraggio di un’unione ora non più meta, oltre la logica e la vista.
L’iniziale definisce: primo quarto: dei luoghi. E i luoghi è il luogo delle tracce, le stesse di sempre: albero, terra, seme, radice, rami e poi acqua, luce: un percorso a ritroso dalla vita alla morte «…torna alla terra» e poi di nuovo alla vita prima, del seme e della radice, per avere dai rami acqua e luce, la sorgente che qui diviene ultima invocazione che dà al nulla e nel nulla i propri segni: un nulla-nido, nostra dimora e vanto. La prima e l’ultima poesia del primo quarto definiscono il perimetro dei luoghi: un nulla, un bianco di pagina su cui si può edificare; una pienezza possibile che ha nel silenzio l’ultimo fulgido bagliore, ma sentenziato dall’autore con parole aspre: «e mentre parli/ dai scolo al silenzio/ e lo crivelli». La vera contemplazione non è possibile, non per noi: la nostra dualità ci impone un’invocazione e la sua bestemmia. Infatti il luogo dell’autore è treno, auto, scivola, va veloce, esploratore, cercare, sbocchi, fughe, il nostro andare, strade: ogni traccia resta in movimento. Un andare fisico e temporale. Non si ha l’immobilità permanente degli atti ma la loro lenta resa.
L’iniziale definisce: secondo quarto: dei monologhi. Ciò che accoglie un luogo è il suo monologo? La sua unica parola? E qual è questa voce? Il suono di una mano sola che non ha conferma. La parola mano compare nelle prime tre poesie della sezione e non solo. La mano è ripiegata su se stessa, nel suo opposto – l’altra mano; non mano che brandisce, suona, stringe altre mani. Mano che fa ombra per non mostrare un segreto che non c’è. Il velo copre il bianco. E ciò si collega al senso di sconfitta che alimenta il primo quarto. Il poeta si fa ombra e scudo delle sue stesse parole per ricordarle e per essere ricordato. Il senso di mistica desolazione pare a metà quarto dissiparsi quando il poeta si paragona al fiume che va inevitabilmente verso il mare: in tale deriva l’acqua dà nomi alle valli e ponti ai paesi per trovare infine, nel mare apero, la luce placida. Ma la luce del poeta è la luce di un mattino: la lingua apre la bocca, il varco, deforma la bocca (ancora l’asprezza nell’atto di farsi pane comune) e dice prima. Il fiume diretto al mare ha la stessa acqua con cui alla fine, nell’ultima poesia del secondo quarto, le mani vengono lavate in un gesto quotidiano, tra posate e ceramiche. L’acqua vortice ritorna alle mani del poeta e oltre, acqua di scolo, come alla fine del primo quarto il silenzio: ora l’acqua, il silenzio, la lingua (organo) è fuoriuscita ed è notte ciò che resta.
L’iniziale definisce: terzo quarto: dei dialoghi muti. La possibilità di un noi è dichiarata. Nella prima poesia risaltano cifre numeriche: 2 e 0. Il tocco dell’Altro porta con sé la morte dell’Altro. Si sconta anche così la vita e a maggior ragione chi tenta la parola vive nel silenzio. Tale abituale consuetudine si frammenta in identità, in un rispecchiarsi di tre elementi: statua di dio sepolta, le proprie mani vuote in tasca e quelle in posa di una donna. Una trinità atea. Ciò che è diviene ciò che siamo. E infatti la poesia successiva si apre con un noi: «tra noi passa il calore/ in un’unica volta/ che tenta di unirci» e il verso seguente trova un io bisognoso di un corsivo per evidenziare l’opposto: ora l’identità è la stessa ma molteplice e il verbo è amarti. E in tale plurima dualità si ha una sospensione dal tempo, la liberazione e il risveglio dove il poeta, per la prima volta, non dà intenzioni ma con fare giocoso, come Kafka insegna, rivela le sue ultime parole. Nel respiro si concentra la parola e sempre con aspre parole, come alla fine delle prime due sezioni, si chiude il terzo quarto. Si approda alla maceria nera, in una sorta di lucidità negativa. Prima di proseguire la lettura dell’ultimo quarto si sente il bisogno di estrapolare dal testo del terzo quarto le parole lasciate in corsivo dal poeta nelle 9 poesie che lo compongono: solo | d’identità devota | io | assente | quello | nel respiro | abbocca. Si scopre un messaggio interno, del tutto coerente con la struttura di dialogo del quarto: l’Io diviene Lui.
L’iniziale definisce: quarto quarto: cesura. L’attenzione si sposta sulla doppia parola quarto. Come se gli opposti trovassero comunione. In effetti la sezione si apre con l’immagine dello specchio che non aggiunge né toglie, di una superficie che è sempre. A ogni parola corrisponde il suo doppio: sopra e sotto, e la domanda è successiva alla risposta. Ma tale equilibrio è precario e il risveglio a tale vita, la nostra stessa vita ma altra, non è permanente: solo lo starci dentro lo è. L’ultima poesia del quarto quarto e della raccolta ha il tono di una sentenza, come se dispiegasse la verità alla fine trovata, dopo che la possibilità di uno stato di lucidità superiore è stata dal poeta intravista e resa possibile ma non conquistata. L’amore vero è quello che si porta ai morti: l’Altro rimane altro, non lo si può toccare. Questo è un risveglio che ci è toccato: tale verso racchiude una violenza di significato e di forma: ci è toccato ha una connotazione negativa, come se fosse il risultato di una sorte di poca importanza; ma è soprattutto l’articolo un che dà il senso di un’atroce beffa. Neanche il risveglio ci è toccato ma uno: uno dei tanti possibili. E non lo porterai con te più via in sogno. L’altra vita alla fine, intravista, è stata un sogno. La nostra si vive qui nel nostro altrove.
Paolo Fichera