Lettera: Colle del Melogno, 29 ottobre 2010

cara *,

non è mai scontato scrivere con sensibilità e trasparenza, soprattutto in poesia, forse per un eccesso del dire, che attraversa tutta la parola e la tramuta in un’euforica, a tratti cervellotica acrobazia sul nulla.
Con sempre maggior frequenza, mi trovo a riscrivere lo stesso testo innumerevoli volte, proprio in ragione d’una “trasparenza”, che non è logica, ma intonazione, esclusione progressiva di quei frammenti del discorso che l’incastro di un verso nell’altro produce, come in un attimo di attrito. Capita di pensare che l’estremità inavvicinabile di tutto questo sia il silenzio, amato e temuto da ogni poeta, dal quale si è attratti come i bambini nei giochi intorno a un pozzo di campagna, in una zona pietrosa, lontana. Ciò che è difficile (ma tanto più necessario) è togliere alla singola parola il carico biografico e letterario che si porta quando la pronunciamo, perché deve essere parola di tutti (nell’intenzione, per lo meno… questa è l’intenzione), non parola propria, come il nome proprio.
Di sicuro, la mia formazione scientifica mi spinge verso la precisazione di un metodo. Alla fine di un teorema, di un esperimento non si può concludere di aver barato: non starebbe in piedi il mondo, ovvero la sua descrizione così come la diamo. Allo stesso modo, al termine di una poesia bisogna interrogare se stessi per essere in pace.
I testi migliori sono quelli in cui ci imbattiamo senza cercarli, come fossero loro ad essersi messi sulle nostre tracce, avvisandoci del loro arrivo attraverso segnali più o meno segreti, che solo alla bocca, all’orecchio di uno scrittore non possono sfuggire: è l’attenzione improvvisamente catturata da certe parole del mondo (non tutte), l’insistenza con cui si mette nelle proprie frasi un ritmo, si emette un suono, si batte una vocale o tende una consonante.
In poesia si può arrivare ad essere persino accusati di troppa umanità, perché il complesso degli elementi in gioco è tale da non reggere il naufragio sentimentale di una biografia intera. Anche l’eredità di chi ci ha preceduti, come le ossa di un corpo che fu impietrito, va scossa, rimossa, occultata, non per mistificazione o astuzia, ma perché nel ritorno di quelle ossa nella terra che è il testo, si sancisce la definitiva appartenenza al verso, alla parola. Gli occhi non devono mai vedere solamente le cose, hanno però un mandato profondo, sconosciuto, per cui testimoniare. Eppure, vedi, la scrittura somiglia talvolta così bene a uno scioglimento del silenzio, che ci sembra sufficiente alla voce il canto per dettarla. Accettare, invece, che la poesia sia uno dei tanti rumori del mondo è il mistero più grande da far proprio.
Un abbraccio
Federico

 

post scriptum: ti ho spedito un cd con i suoni dell’Appennino tra estate e autunno, qualcuno dell’inverno, come hai chiesto.

in foto: uno dei momenti migliori sull’Appennino ligure, quando le nuvole nascondono il mare. Chi è di queste parti, però, sa.

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